Ciudadela Pentagonale

31.12.2021

Se hai una conoscenza letteraria della tauromachia, una corrida a Pamplona, (corrida en sol s'intende, sombra non è vocabolo pamplonese) ti offenderà. L'alone eroico di Hemingway, la sensualità luttuosa di Lorca, la lettura erotica di Leiris, le reminiscenze cretesi, ma anche romanzacci qualsiasi e filmoni peggio, ti hanno preparato a una tragedia, anzi a un rito, l'unico capace di destare risonanze in ottusi animi occidentali. Ma anche il meno acculturato dei turisti che viene a goderselo come sport estremo eccezionalmente coreografico, nemmeno sfiorato dall'idea di presenziare all'uccisione di un dio, si aspetta che uno spettacolo dai biglietti semplicemente introvabili venga seguito con la stessa attenzione riservata a un incontro di boxe o a una gara di Formula.

Poi al momento della verità ti arriva una torta in faccia. Non proprio una torta, sarà una caraffata di sangrìa o uno spruzzo di champàn, ma il clima è quello. Piccole arance, olive intere o il solo nocciolo, teste di gamberi e gusci di chiocciole ti sono arrivate in testa durante tutta la faena ma tu pensi che sia l'irrisione di un pubblico di intenditori per le infiorettate contorsioni di un torero scarso. Ma la gazzarra non si quieta neanche nel momento più alto. Cerchi la compostezza del coro greco e ti ritrovi in pieno grandguignol.

Non è lo shock fisico dell'impatto a offenderti, l'umidiccio della mota indefinibile che - cuscino o non cuscino - impregna pantaloni e mutande, né la sensazione che molti buontemponi stiano concentrando i tiri sulla tua persona con perfetta scelta dei tempi. E' l'idea che migliaia di persone non abbiano alcun rispetto del duello sanguinoso e della sua storia, della loro storia. Per fortuna, dopo il terzo toro, la maggior parte della marmaglia va a completare le libagioni negli anelli esterni della plaza, dove qualche sparuto cartello, rigorosamente in doppia lingua, proibisce di - o invita a ? - insozzare.

Poi ti convinci che è giusto. Ti rendi conto che è una perfetta allegoria della vita. Solo a teatro - o al cinema - le tragedie sono seguite con partecipazione. Nella realtà le grandi tragedie avvengono nella più totale indifferenza. E' la scoperta di Swann alla fine della Recherche: ai tuoi migliori amici, alle persone più squisite e sensibili, della gravissima malattia che ti ha colpito non gliene può fregà de meno. Ma no, l'indifferenza è ancora compostezza. E' nella gazzarra che si consumano le tragedie. Sacro e profano, crapula e tortura, mistica e pernacchie.

Per proteggersi dal lancio delle vettovaglie i giovani delle penas vestono camici, naturalmente bianchi (Pamplona è un oceano di vele durante los sanfermines). In realtà, la tela dei camici è troppo leggera per proteggerli da alcunché. L'unico effetto dei camici è che, colorandosi del rosso della sangrìa (che, attenzione, non è affatto la bevanda abituale del luogo) li fanno assomigliare a macellai. Si mette dunque in burla la nobile uccisione. Al centro il matador, intorno i norcini. Sull'arena il sangue, sulle gradinate la sangrìa (anch'essa sangue sacro, tuttavia, sangue di un'altra vittima, il Cristo). Dunque la corrida en sol dei pamplonesi sarebbe la versione più evoluta di questo rito, il grado più alto di esorcizzazione della morte, la dissacrazione totale del Dio, del Padre, della Tradizione. E invece, probabilmente, è solo quello che sembra. Un gioco scemo, neppure goliardico, semplicemente fanciullesco.

Una cosa è certa: la corrida per i pamplonesi conta poco. E' la necessaria formalità conclusiva dell'unica cosa che conti per loro e per le centinaia di migliaia di noi che affollano Pamplona nella prima metà di luglio: l'encierro, il trasferimento dai corralillos alla Plaza de Toros dei tori che combatteranno nel pomeriggio. In ogni paese di Spagna è un banale trasporto ormai effettuato con i camion, qui è l'unico vero rapporto con la Bestia. Questo sì rito, tragedia, festa, pulsazione corale. Anche i Pamplonesi che non corrono hanno un parente, un amico, un conoscente che corre (ma che non morirà: gli americani muoiono, i pamplonesi li protegge San Fermin). Gli eroi del giorno sono gli incornati, le cui foto e interviste sono sui quotidiani locali il giorno dopo. Quotidiani pieni di commenti, grafici, considerazioni, come in tv per tutto il giorno dopo la diretta delle otto. Fogli che, arrotolati, diventeranno il cero votivo dell'invocazione a San Fermin e poi pungolo e guida per i tori. E' il trionfo dello sport attivo su quello passivo. I pamplonesi si procurano il brivido direttamente, lasciano agli altri spagnoli il tifo per gli ancheggiamenti di questo o quell'altro strapagato fighetto in costume.

La corrida, purtroppo, ci dev'essere. E che si potrebbe fare, se no, riportare i Miura al pascolo? E se corrida ci dev'essere, che sia buona. Si pagano i migliori toreri, perché a Pamplona si è abituati a fare le cose in grande. "Noi, però, abbiamo di meglio da fare: ce ne andiamo sul retro a strafocarci di fagioli". Abbiamo un fiesta da onorare, noi. Dobbiamo divertirci.

E' commovente l'impegno dei pamplonesi nel divertirsi: chiudono tutto, panifici, negozi, banche. E tutti, tutti, si mettono a bere e a ballare. Cosa bevono? Non è importante. Non esistono bevande tipiche, in Navarra, ad eccezione del pacharan, un parente dello Cherry Stock. Ma non lo si beve durante los sanfermines, come non si beve l'Anis. Si beve birra da quattro soldi, vino da quattro soldi, liquori esteri e - finalmente qualcosa di tipico - il calimocho, una mistura di Coca Cola e vino, naturalmente da quattro soldi. Si beve anche molto champàn - uno spumante neppure champenois - spesso mescolato a succo d'arancia, o, nel migliore dei casi, a un'ottima granita di limone per comporre il sorbete, che quand'è buono costa un occhio della testa. Il cibo dovrebbe essere buono, grazie all'influenza della cucina basca e francese, ma perlopiù ci si deve cibare di bocadillos con jambon (non ci si lasci ingannare dal suono esotico, sono comunissimi panini). Saranno tipici i ritmi, come qualsiasi bravo viaggiatore si aspetta in ogni parte del mondo? Ma no, la musica caratteristica, quella con pifferi e tamburelli, che poi è basca, non navarra, è relegata a curiosità etnologica in qualche parco o in un angolo della Plaza del Castillo ed è ballata da alcuni puristi nostalgici che magari simpatizzano per l'ETA. Si suona musica comune, commerciale. Anche percussioni etniche o ballate di menestrelli per strada, tutto fa brodo. Dal vivo, su disco, sui palchi, nei locali, nei parchi, un frastuono continuo investe il passante. Non c'è strada o rione immune dal suono. No se duerme. E, davvero, volenti o nolenti, no se duerme. O meglio se duerme dalle dieci del mattino alle tre del pomeriggio, se si è lontani dal Casco Antiguo e si ha proprio voglia di sprecare qualche ora della Fiesta. I balli? Boh, ci si agita. A tratti, perlopiù. Si cammina ondeggiando, tanto si ondeggerebbe comunque dato il tasso alcolico. 

Insomma, uno che odia la folla, gli interminabili matrimoni meridionali, le migliaia di imbecilli che in balera o sulle spiagge mettono una mano alla cintura, una mano sulla testa, pronti al movimento sexy, perché dovrebbe trovare divertente la stessa cosa in salsa spagnola? Che c'è di grande in questa Fiesta?

Il segreto è quello che Mario Praz aveva individuato nei saggi di Penisola Pentagonale: la dismisura. La grandiosa, possente monotonia simboleggiata dall'Escorial con il rosario delle cento finestre uguali, ma anche dall'Alhambra, l'arte di moltiplicare senza sviluppare.

Aveva ragione: a Pamplona tutto si moltiplica: i bicchieri, i bar, le penas, le ore di ballo, i giorni di festa. I bicchieri sono di plastica, il contenuto scadente, i bar sono squallidi corridoi vuoti, gli eventi si ripetono ogni giorno, lo spettacolo è uguale a ogni ora, i ballerini non hanno grazia (l'unico delizioso quadretto di ballo possono offrirlo in qualche angolo di parco le zingare bruttine con vestiti della festa fatti in casa che magari ballano tra loro - e se ballano con i maschi, appena finisce il pezzo si allontanano di scatto senza una parola). Eppure il difetto si capovolge in pregio. La quantità si trasforma in intensità. Ogni momento è fiesta, ogni strada, ogni portone, ogni persona. Tutti sono davvero cordiali, non solo i duecentocinquantamila pamploneses, ma anche il milione di ospiti. Per miracolo tra tanta gente, a quel tasso alcolico, non succedono incidenti. Non si vede una divisa in tutta la città. Non c'è una rissa. Le avances e gli scherzi non oltrepassano mai il limite. Perfino i francesi risultano simpatici. E il volto pulito dei giovani e delle giovani delle penas rende gradevole anche il sentore di ammoniaca dell'urina - solo a volte annullato dall'odore del vomito - e i milioni di bicchieri di plastica che tappezzano il fondo scivoloso delle stradine del Casco Antiguo. I più schizzinosi possono comunque trasferirsi nel Nuevo Casino sopra il Cafè Iruna o negli altri locali della piazza principale frequentati dalla gente bene, dagli americani e dai turisti di Biarritz.

La festa è allegra, spensierata, fanciullesca. Distinti signori discutono a lungo con serietà agitando trombette di plastica, pupazzetti di peluche, lingue di Menelik. Perché quello che i pamplonesi vivono in questa settimana allungata (anche le settimane allungano) non è trasgressione, come vorrebbero, ma regressione.

I pamplonesi si sforzano di trasgredire ma tutto viene riassorbito. Anni fa i ragazzi delle penas decisero di vestirsi di bianco. Ora todo el mundo si veste di bianco. Più di recente qualcuno si è sforzato di creare un avvenimento a sorpresa, lo struendo, un frastuono infernale ottenuto di notte da un accozzaglia di tamburi e trombette. Ormai è un avvenimento contemplato dai pacchetti delle agenzie turistiche, inizia a mezzanotte in punto e l'unica sorpresa sta nel variare della data, ad ogni modo annunciata in anticipo. Ogni trasgressione, qui, diviene immediatamente tradizione. Di quelle tradizioni fresche fresche, da Nuovo Mondo. Verrebbe anzi il sospetto che tutto ciò abbia a che fare col desiderio di richiamare sempre più turisti.

Ma non è così: semplicemente i Pamplonesi non possono sfuggire al loro destino di irregimentati. Pamplona è sempre stata una cittadella militare. La Ciudadela, l'ex fortezza, è pentagonale, come la sede della Difesa statunitense, come la Spagna di Praz.

I pamplonesi per fare festa si mettono in divisa. Una divisa candida, angelica, pacifica. Ma una divisa. Fanno i bambini, giocando con l'alcool come con le pistole giocattolo.

L'unica cosa fuori dalla prevedibilità, fuor di coreografia, è l'encierro. Certo, anche ogni corrida è diversa dalle altre, anche ogni partita a dama è cosa a sé, ma l'encierro è davvero diverso ogni volta. Non ci sono cuadrillas a guidare e stornare il toro, non sai quando scivolerà il corridore davanti, non sai in quanti cadranno in mucchio sulla tua strada, non sai quale gomito, cercando varchi, ti spingerà sulla traiettoria delle corna. Ci sono modi relativamente sicuri di compiere un tratto di percorso, ma niente è veramente sicuro, in una folla così fitta. Dove c'erano venti montanari ora ci sono migliaia di persone. Veterani ma anche turisti ignari, ubriachi a tutti gli stadi, folli in cerca della foto che li immortali, criminali che improvvisano minicorride col pullover. E tutti, quando arriva il toro, governati dall'adrenalina. Si possono vedere, nei filmati al ralenti, partecipanti già tranquillamente addossati alla barrera, del tutto fuori dalla traiettoria degli astados, proiettati al centro della strada in un frazione di secondo da un cuneo di massicci corridori che sopravvengono. Se c'è qualcosa di veramente cambiato, infatti, rispetto agli anni venti, è la fonte del pericolo. Il pericolo è il compagno di carrera. Il gesto tipico del corridore dell'encierro, eternato in bronzo nei pressi della Plaza de Toros, è l'estensione delle braccia, uno avanti l'altro indietro a controllare non i tori ma i vicini, come nel calcio un attaccante attorniato dai difensori.

Fate un confronto col Palio. Mezzo mondo si interessa a Siena per la corsetta di una decina di cavalli che sono gli unici a farsi male, a eccezione di qualche sardo prezzolato (son mica scemi i senesi: figurarsi se se li montano loro gli idolatrati equini). Dopo, i contradaioli svengono. Piangono, si strappano i capelli, diventano autistici. Ma è solo tifo. Fazione. Una cosa molto italiana, tanto poco eroica. Anche gli americani si emozionano ma per un altro motivo: quella piazza è il luogo più suggestivo del mondo. Ci facessero pure la corsa delle lumache, le vertigini sono assicurate.

L'encierro è un'altra cosa. I minuti precedenti al lancio del razzo, in Santo Domingo, questo budello chiuso su un lato da una parete di marmo altissima, levigatissima, sulla quale, beffardamente, sono dipinte aperture e finestre: niente sbarre tra le quali infilarsi, non androni e grondaie come in Estafeta, neppure i rugosi interstizi del vecchio muro di contenimento a fronte. Le facce nelle prime file, i rituali, lo stretching, le mani giunte, il sorriso fisso, lo sguardo perso nel vuoto. E l'invocazione a San Fermin. O preghiera, filastrocca, mantra, inno. Quei pochi versi ritmati dal gesto del braccio, dal giornale arrotolato, un po' cero, un po' bastone: un atto di minaccia più che di sottomissione, come la tensione nelle voci, curiosamente imperiose per una richiesta di intercessione. Poi l'esplosione espiratoria del Viva e del Gora.

Il resto emoziona anche in TV. Figuratevi su quel selciato, col Dolby surround della mandria in arrivo.

Gazzetta del Mezzogiorno, 12 luglio 2001, con altro titolo  

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