PIRAMIDI 

ovvero CONVEGNI 

ovvero FOGLIE D'ERBA 

ovvero SOIA E GINESTRE 

ovvero L'UOMO COME BAVERO 

ovvero IL DR JEKILL E MR HERBIE 

ovvero ROMANZO DI INFORMAZIONE 

ovvero MANUALE DI MULTILEVEL MARKETING

Recanati, Pinacoteca comunale 

Il bavero. Non è l'abito che fa l'uomo ma il bavero. Ti appendi una cosa al bavero e diventi qualcosa di preciso. Io dovrei tenerci appeso il tesserino di riconoscimento, da bravo funzionario pubblico. Ma odio i distintivi, le mostrine, i gradi. Divise, divisioni, definitive definizioni, riduttive caselle. Un tesserino è una lapide, la pietra tombale delle possibilità. Così evito di indossarlo. 

Il badge da relatore è un'altra cosa. Distingue, eleva. Anche se al Convegno Leopardiano, l'altro ieri, non ero un relatore in senso stretto: ero lì per leggere un racconto. Un reading, una cosa alla Bukowski ma analcolica. Il reading è andato bene ma le ragazze erano troppo giovani e accompagnate perché la serata finisse alla Bukowsky. Figuriamoci, acquartierate in un Istituto religioso. E distrutte: all'alba il pullman da Salerno, una mattinata di Relatori, pomeriggio con me e l'altro scrittore, dopo cena reading di due poeti, sensibili, divertenti, per nulla Relatori, che si offrivano continuamente di smettere per lasciarli riposare e alle proteste di qualcuno dispensavano brevi epigrammi, i più divertiti e divertenti del loro repertorio. Ma ormai i ragazzi avevano gli occhi sottili. 

Il badge mi è stato utile, il giorno dopo, nella sala importante della pinacoteca, quella chiusa a chiave, dove andavo di continuo, stufo dei professori della sala inferiore, quelli sì Relatori. Relatori debordanti, docenti universitari che tengono le loro concioni ad uso dei colleghi seduti al tavolo, fottendosene dell'orologio e del pubblico di studenti delle superiori. Incapaci, come sempre, di toccarli. Così infilavo le scale per il Museo e finivo sempre lì, nella sala dell'Annunciazione, a mascella pendula. Fino alla resa dell'anziana custode che mi pedinava: "Vabbé, non si dovrebbe... dovrei essere sempre presente in questa stanza ma, insomma, vedo che Lei è un Relatore". Ha sorriso e mi ha lasciato. Solo. Solo con l'Epifania. Con Lei, col suo Dio sghembo, col gatto. Eh, il gatto. Minuti. Decine di minuti. E' ritornata con uno che avevo incrociato prima, a casa Leopardi. La piccola signora si è fermata un po', poi ha capito che anche quest'altro era a lunga fruizione e si è allontanata. Tanto garantivo io, il Relatore: questo doveva essere il senso della complice occhiata di commiato. Ogni tanto mi spostavo di un passo, a volte di due. A volte, per riposarmi, guardavo gli altri capolavori, il trittico soprattutto. Poi l'altro amatore se n'è andato. Di nuovo solo, grazie al mio bavero.

 Roma, Jolly Midas Hotel 

Anche Herbway pretende il distintivo. O spilla, o bottone. Un cerchio di latta rivestito di plastica adesiva con una scritta: una domanda, perlopiù, o un'affermazione, in varie lingue e colori. Molti ne portano due, alcune donne ne portano quattro o più, al bavero ma anche sulla borsetta, ci sono scambi tra i distributori di diversi paesi e la corsa a quelli in lingue poco diffuse. Normale, in un meeting. Ma vanno indossati sempre: è una delle tre regole. Usare il prodotto, parlare alla gente, portare il bottone. Che serve ad attaccare bottone. Io non l'ho mai portato ma nella hall Manuel, il nostro President Team, mi ha guardato. Non con riprovazione - non c'è gerarchia qui, che consenta rimproveri - ma con schifo (in stile con il suo inarcamento dorso-lombare da ballerino di flamenco). E' con questa smorfia disgustata che ha detto a Furio, il mio sponsor, di fornirmelo immediatamente. E' una violenza. Non odio solo i distintivi, odio i venditori. E poi io sono una persona seria e le persone stanno a sentirmi perché sanno di parlare con una persona seria. Se mi vedono targato penseranno che sono rimbecillito e non mi daranno ascolto. Qui non siamo in America dove tutti esibiscono coccarde e distintivi: il mio approccio è amichevole. Le persone comprano da me perché le consiglio da parente, da amico, non da venditore. Il bottone mi identifica come venditore e la gente non accetta i consigli di un commerciante. 

Ma in Herbway non perdono tempo a discutere di questi argomenti. Loro non discutono, recano esempi: Mark Hobson lo porta, tutti i President Team lo portano. E sono diventati President Team perché lo hanno sempre portato. Se non lo porti non potrai mai diventare President Team. Tutta Herbway è un processo di clonazione. Si imitano quelli che hanno imitato coloro che hanno imitato Mark Hobson. Si raccontano le vicende di chi è diventato President Team. Parabole. Non seguono spiegazioni e neppure parafrasi. Fate come loro, diventerete come loro. Sono così diversi tra loro quelli in alto, ma una cosa li unisce: l'assoluta impossibilità di trascinarli in un contraddittorio. Mostrano un'assenza di opinioni quasi inumana. Sarà una posa, o veramente si nutrono di esempi e metafore? Metto il bottone "I love Herbway", non quello con la domanda. Inutile dire che "love" è sostituito da un cuoricino. Ne adocchio uno in una lingua sconosciuta sulla borsa di una bionda (ungherese?) e la accosto per scambiarlo col mio. Ora sono targato, però tra l'esibizione spiritosa e la contaminazione esotica: non del tutto uomo-sandwich, insomma. Ma sento già Manuel, alla prossima riunione, parlando "in generale", ricordare che tutti i bottoni vanno bene ma almeno uno deve essere esplicito, e in italiano. Lo porta Mark Hobson, e non si vergogna. Chi siamo noi per vergognarci? Bisogna essere orgogliosi di portarlo, questo è il difficile. Evitare di portarci casualmente il giornale davanti quando si incontra qualcuno che si conosce o portarlo sopra la giacca ma sotto il cappotto; evitare di averne solo uno, che è il modo migliore di non portarlo mai (oh, è sul bavero dell'impermeabile, nell'armadio). Divertirsi a portarlo. E qualche volta ti ci sei anche divertito. Ma in permanenza... tu che fai ogni cosa tra l'altro, per puro caso, temporaneamente. Anche. Dalle donne al diploma, dal tennis all'impiego: tutto tra parentesi. 

La sala è grande, grazie alla spessa moquette e all'imbottitura delle poltroncine non si sente molto chiasso, nonostante l'affollamento. Io e Furio ci sediamo vicino a Vittorio, fratello e sponsor di Furio. Tra me e Manuel c'è Dora. Il palazzo romano dove Manuel ha aperto il suo ufficio appartiene alla famiglia di Dora. Manuel l'ha invitata alle riunioni, l'ha registrata, ha lavorato con lei, adesso sono insieme. Cohen non ha una faccia americana ma le gambe sì, lunghe gambacce per i dinoccolati passi da cowboy con cui misura il palco, o ne discende e ne risale per sottolineare i punti importanti della dimostrazione. Con concisione ed efficacia, tradotto dalla bruna del Costanzo Show, illustra il modo per diventare milionari e vivere in perfetta salute il resto dei nostri giorni. Racconta dei suoi inizi difficili in Francia e tiene in tempi brevissimi una sorta di corso creative writing - o si dovrebbe dire creative talking? - perché il nostro lavoro, dice, è quello di raccontare storie, di insegnare a raccontarle e di insegnare a insegnare a raccontarle. Non nel senso di vendere fandonie, perché in Herbway non c'è nessun bisogno di mentire, ma nel senso di trasmettere con efficacia le storie proprie e altrui in intervalli di tempo che variano da meno di un minuto (aggancio in ascensore) ai quindici minuti di un incontro più rilassato ai tre quarti d'ora di una riunione vera e propria. 

Contar storie non è che suoni tanto bene qui da noi. Testimonianze va già meglio. Tutti, chiesa o televisione, comizi o riunioni di condominio, vogliono "portare la loro testimonianza". Cohen approva, o corregge brevemente, le testimonianze di salute e di soldi, incredibili ma vere, dei distributori che si alternano sul palco. Non si sogna di cambiare quello che i testimoni raccontano. Non sopprime né aggiunge particolari. Interviene solo sull'ordine dell'esposizione. Si comincia dal principio, non dalla fine. Da quando si stava male o si era grassi, da quando si era poveri e così via. Rispettare l'ordine temporale. Perché sia semplice, non infiorettato. Niente tecniche sperimentali: non si comincia dalla fine, non c'è posto per i flashback. Tutto dev'essere immediatamente chiaro. Anche a scapito dei dettagli. Non bisogna dilungarsi. Le cifre sono importanti e vanno sottolineate. Tutto il resto va abbreviato. Se siete a cena con i vostri parenti potete parlare quanto volete. Basta che siate capaci di raccontare anche in cinque minuti. Usando dei numeri, possibilmente: tot milioni di persone lo usano, esiste da tot anni (non l'ho fatto mica ieri, in garage) tot miliardi di fatturato. Le parole sono solo parole, ma i numeri sono Numeri. Più chiari di qualsiasi immagine, più reali di qualsiasi esperienza. E brevi. Bisognerebbe usarne di più nei romanzi.

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