Manifesto antipoetico

Di solito non leggo poesia. Perché i Poeti usano parole come albore, lucore, nitore (saranno salvifiche?) oppure ne accatastano centinaia di sciatte, giornalistiche e inutili. Ma anche le poesie splendide mi sembrano un surrogato: pare, infatti, che le Muse si siano invaghite dei canzonettisti. Non che i testi delle canzoni siano "poesie", tesi temeraria vera forse in due o tre casi benché avallata addirittura da qualche anziano e autorevole poeta. E' che l'insieme di versi (anche atroci) musica e timbro "d'autore" costituisce in qualche modo, evidentemente, quella "Superarte" che si era voluta forgiare con il teatro lirico. Iannacci non avrà vinto il Premio Montale ma poteva anche farmi piangere - proprio come se ascoltassi Suzanne di Leonard Cohen - quando se ne usciva con "Vincenzina davanti alla fabbrica". E non riesco a pensare a nulla di più postmoderno, metalinguistico, ma anche futurista e dada, di Bollicine di Vasco. Che non farebbe questo effetto senza la ruffiana interpretazione del nostro idolo, non sai se predicatoria o beffarda, entusiasta o rassegnata.
Perciò quando ho avuto tra le mani il libro di Andrea di Consoli (Discoteca, una raccolta di versi uscita in Cromosoma Y , la nuova collana Palomar diretta da Michele Trecca e dallo stesso Di Consoli) non ero affatto desideroso di leggerlo. Una volta cominciato, però, mi sono ritrovato a leggere come faccio di solito, quasi d'un fiato, senza particolari posture, senza concentrarmi, senza elevarmi, soprattutto senza annoiarmi.
Perché questo è un libro di racconti (un critico rifinito potrebbe dire se questo modo narrativo del poetare abbia ascendenze - e quali - in Pavese o Bertolucci). Di Consoli "prende e racconta". E ti risucchia nella sua vita quietamente, apparentemente senza artifici. Discoteca, infatti, è soprattutto un diario (un "mestiere di vivere" col suicidio di sfondo che ci riporta a Pavese).
Un diario personalissimo e collettivo: riguarda solo lui, e anche tutti i maschi meridionali: quelli che restano, quelli che sono partiti, quelli che sono tornati, quelli che vanno e vengono. Quelli che nasceranno e resteranno, o se ne andranno (ma dove?). E riguarda le donne: tutte, del Sud e del Nord, conosciute e sconosciute, guardate e mai viste, già morte o mai nate. Donne tutte immerse nella durata, nel loro corpo a cui vorrebbe fare domande sullo scirocco/ e su come ci si sente quando ci si sveglia di colpo. Quelle che tradiscono, con tutti i loro tremori, le ragazze un po' grasse che si raccolgono in un plaid, quelle che salgono sugli autobus della Simet. C'è affetto per tutte, un affetto cosmico reso legnoso nella vita quotidiana dalle troppe domande, dalle parole, dalla poesia stessa. Andrea Di Consoli ci offre le sue rughe notturne come capita in certe situazioni di offrire a tutti da bere/ Con il nascosto desiderio di vedere la tristezza degli altri/ Di vederla affiorare sull'orlo di un bicchiere.
Scaglionati in quattro sezioni alquanto arbitrarie, si ritrovano dei filoni precisi: il padre, le sbronze, l'amore disingannato, l'amore compiuto. La "discoteca meridionale" non è solo una delle sezioni, ma il leit motiv del tutto (Di Consoli è lucano a tutti gli effetti: benché nato a Zurigo e domiciliato a Roma, ha vissuto al Sud tra i dieci e i vent'anni, l'età fondante).
Il suo grande pregio è quello di aver deciso di accettare il destino senza fare il menagramo o lo scalatore del pensiero. Sa che il mondo non verrà salvato dall'intelligenza,/ ma dallo scatto di corpo che ci porterà a segnare gli oggetti, le persone, il tempo e se ne scrive è per una residua incapacità di dormire quando la vita dorme in sé raccolta: la vita che basta a se stessa. La letteratura come insonnia residua. Come residuo. Succede, a uomini che sanno cos'è importante davvero (come per un Bukowski la birra e le scopate), a uomini insonni, circondati da cicche, che scrivono compulsivamente senza nessun intento di vaticinare, per una residua vitalità, per incartare i residui della giornata, in preda a un malessere febbrile e un po' sbronzo che "no che non è malessere, è benessere, è vedere il mondo liberamente" di essere sfiorati dalla grazia e di riuscire a catturarla con la tastiera. A Di Consoli capita in modi diversi: l'accettazione del destino fa aleggiare in alcuni brani - vedi Uscire per strada il sabato mattina - lo spirito dell'haiku (impersonalità, verbi all'infinito). In altri (C'è sicuramente domani mattina) il racconto si frantuma in pezzi sempre più piccoli: incisi, riflessioni, riprese. Alcuni componimenti sembrano lettere. Tutti parlano di Quell' uomo che potrei essere io, un uomo del Sud forse inchiodato al passato. Il poeta che potrebbe essere Di Consoli è andato avanti, ad aspettare epifanie nella stanza calda di un condominio romano, il suicidio come desktop, la sbronza come screen saver.
Ma si invecchia, ci si slabbra, ed è come una rabbiosa musica rock che si trasforma in musica popolare e diventa definitivamente una ridicola canzone di briganti.
La disperazione quieta gioca brutti scherzi: può indurre a contemplare con tremenda ammirazione quella violenta. Così nell'ultima sezione, inferno, Di Consoli afferma che la rabbia è già una soluzione. E' una tentazione ricorrente, eterna: addebitare a qualcuno, a qualcosa, i guai di un popolo, magari i problemi esistenziali del singolo. La Natura non può essere Matrigna: sarà patrigno il Ministro di turno.
Per Di Consoli la solidarietà non è pietà, elemosina, prassi politica. E' una totale, epifanica partecipazione, questo contenere - o disperdersi in - milioni di uomini. Quelli che se li guardi dalla luna bianca sembrano tutti uguali/ ma no che non sono uguali/ Ognuno si fa compagnia in un modo preciso, tutto suo. E senti che non si riterrà soddisfatto finché non conoscerà esattamente ognuno di questi modi precisi (non a caso Di Consoli è giornalista). Non posso accettare che tutto svanisca/ che non ci sia un custode per ogni cosa. Delle sue cose, intanto, delle vite che ha incrociato, comincia lui a fare il custode: si mette a salvare i file, certo che ci sarà un grande archivio da qualche parte per conservare ogni cosa. Ma non si riesce a ricordare tutto: Torna alla mente solo il meglio - solo l'antologia. Forse questo sentire gli altri, come sotterraneamente, questo dilatarsi esaltante e disperato, è quello che cercano di dire tutti i poeti. Ed è miracoloso che Di Consoli ci riesca con una lingua che più piana, prosaica e prosastica non si può, con quello che a me pare un manifesto antipoetico.