Un boh e mezzo

29.12.2021

Il titolo poco accademico di questo intervento, che ha tanto inquietato la cara Antonella, non nasce dalla voglia di provocare o di sminuire le questioni. Il punto è che sono qui come scrittore e lo scrittore farebbe bene a non porsi questo genere di domande. Gli scrittori seguono percorsi tortuosi e poco ortodossi, coltivano le loro ossessioni, guai se frequentassero gli studi di letteratura comparata. C'è chi sostiene che uno scrittore non dovrebbe assolutamente leggere narrativa contemporanea, specie di conterranei. Solo classici, qualche libro d'altri continenti e tanta letteratura specialistica (biologia, medicina, marketing, geologia, soprattutto geologia, come esortava Manganelli). Così eviterebbe d'intrupparsi, di adagiarsi nei filoni più o meno coscientemente.

Boh, quindi, sarebbe la risposta più sincera e responsabile alla domanda sulle direzioni della nuova narrativa sudista.

Siccome, però, contravvenendo al citato divieto, inevitabilmente annuso, avanzo un sospetto: la nuova narrativa del Mezzogiorno va dove la porta Einaudi. Per far parte del sistema, infatti, occorre piacere ai protagonisti di quello che Vladimiro Bottone definisce il grande gioco, e non mi sembra che tra i lettori delle grosse case editrici ci sia una prevalenza di calabresi. Potrebbe anche essere, non conosco, ma, insomma, il terrone scrivente rischia di trovarsi condannato a due maniere egualmente innaturali: accentuare, quasi caricaturalmente, le caratteristiche meridionali - o meridionalistiche - della sua scrittura (con esiti migliori, in ogni caso, di quelli ottenuti da certi esponenti culturali scesi ad ambientare in Otranto i loro fasulli romanzi). Oppure omologarsi a quel costipato gusto nordico che porta alla pubblicazione dei libri penitenziali di Fleur Jaeggy, e quindi essere ritenuto, finalmente, emancipato, civile. Disertore compiuto, nel migliore dei casi.

 Personalmente, mi rifiuto di giocare a questo gioco. Gioco avallato, in fondo, da quell'impennata d'orgoglio che va diffondendosi da noi, quel serrate i ranghi che animava le polemiche estive su Aldo Nove e la Puglia nel Corriere del Mezzogiorno (sfuggita fuori di Puglia, immagino). Infatti, di fronte al ground zero del livello culturale, a quella curiosa forma di dislessia che affligge tutte i ceti del meridione, non esclusa la categoria degli insegnanti, di fronte a un'editoria sia pure nobile (o nobilitata, come il legname di certi mobili) ma del tutto inadeguata e, in ogni caso, non orientata alla narrativa, di fronte alla scarsità di autori, perlomeno autori pubblicati e, soprattutto, diffusi, con l'eccezione dei due fortunati regni di Campania e Sicilia (perché se stiamo qui a consolidare il muro di Ancona, allora dovremo pur distinguere tra regione e regione, e sia chiaro ai suscettibilissimi colleghi che qui si fa statistica, non critica) di fronte a tutto questo nasce la voglia di costituire una comunità, un fortino, una Confederazione. E' per questo che siamo qui, in fondo, no? Ma certi sussulti rischiano di impantanarci maggiormente. Si accompagnano infatti all'affidamento di missioni di riscatto sociale e a dettami sulla riscoperta e valorizzazione delle radici. Ora, uno le radici ce l'ha e basta. Non è che star lì a rimuginarci sopra dia la stura a chissà quale esplosione creativa: si finisce anzi per perpetuare, per ripiegarsi. Io non avverto la necessità di salici piangenti, ripiegati verso le loro radici, auspicherei piuttosto la crescita di scrittori-cipresso, che si allontanino velocemente dalle loro radici a fittone e ricordino tuttalpiù, da cipressi, che il loro vero ambito sarebbe toscano. Insomma, già essere definito italiano, per uno scrittore, è mortificante: significa la condanna a tirature di mille copie. Figurarsi se voglio essere definito scrittore meridionale, anzi pugliese, anzi brindisino, e per la precisione latianese. La sabauda Disertori è operazione paternalistica e ghettizzante. Dovremmo essere grati della ribalta che ci offre, ma possiamo ignorare che è veramente una consacrazione del secessionismo? Che criteri antologici sono mai questi? 

Eppure siamo stati noi a cacciarci in questa condizione, con Sporco al sole, ottima raccolte, atto di legittima difesa, sacrosanto disseppellimento di un sommerso ignorato dal grande gioco, ancor più apprezzabile perché nata quasi in opposizione a un "reazionario" Luna nuova. Ma voler dimostrare che nel Sud abitano scrittori - scrittori senza attributi particolari, soprattutto senza attributi veristici - è stato inteso come prova dell'esistenza di una fantomatica fauna: gli scrittori "meridionali". Qualcosa di più, ecco che si dimezza un boh, posso dirla sui luoghi: quelli rientrano nella mia sfera di competenza. Non che ne veda più tante di corrispondenze peculiari: anche la realtà del Mezzogiorno, oggi, è fatta di a-topie, di non luoghi, di vere e proprie metropoli per nulla diverse da altre. Forse dalle nostre parti l'uso di certi locali nelle zone 167 è particolarmente improprio, ma lì è più questione di fauna che d'ambiente. L'immaginario pugliese è ormai costituito dai corridoi dell'Ipercoop. Gli ulivi non rappresentano più che un ornamento, alla stregua di palme e cycas, e i trulli, quelli scartati da inglesi e tedeschi, se li sono comprati i milanesi. Ci sarebbe, sì, una certa qualità della luce e tanti miracoli di pietra, naturali e artificiali, anzi artificiosi: si è parlato spesso, in proposito, di scrittura barocca. E in effetti riesce difficile credere che le volute dei nostri scalpellini non debbano contagiare gli scrittori di Puglia. Ma il più barocco degli scrittori italiani era lombardo. C'è il mare, certo. Il mare che bagna la Napoli di Ferito a morte e non la bagna nell'altro libro (quello della Ortese). Certo, il più grande romanzo del secolo passato - Horcynus Orca - è un romanzo del Sud ed è un romanzo sul mare. Ma è un libro concepito quando ancora molti vivevano del mare, in maniera arcaica, e soprattutto è un libro sullo stretto, su un ponte più che su un mare, perché i ferribò e le scialuppe delle femminote fanno ponte. 

Nel Salento il mare è un'altra cosa. I Salentini hanno sempre vissuto il mare un po' come i sardi: il luogo del pericolo, degli avamposti, delle torri costiere, normanne, saracene, spagnole, oggi della Guardia di finanza). Dopo il mamma li turchi, il mamma gli scafisti: e, beh, una saga sugli scafi blu non sarebbe male. In ogni caso il mare dei salentini è un mare di chiusure e non di aperture. Finisterre, non trampolino. Contemplato, come scrive Carmelo Bene, da "una genìa di monaci annoiati agli avamposti dell'inesistente, imboscati allo scopo di trasmettere un dogma quotidiano ai paesi più lontani, Libano, Albania, che si potevano a seconda dei giorni sereni o no, distinguere o meno." Lo Ionio, pavone d'infinite correnti fatate, è ben presente nel capolavoro di Bene, così come l'architettura moresca, quella barocca e, naturalmente, l'ossario otrantino. Ma già negli anni sessanta il Maestro vedeva Otranto assediata dai nuovi turchi, i turisti. Il piano del favoloso cedeva al piano regolatore: "Quest'assedio sarebbe durato di più... Il popolo avrebbe volentieri aperto le porte del paese agli infedeli sennonché, timorato dagli enti pubblici, si rassegnava a proseguire i lavori comandati dall'azienda autonoma del turismo... Dal momento che la città era indifesa, illudersi di organizzarla era follia. Si doveva, secondo lui, prodigarsi a improvvisare nei singoli un qualche gusto estetico, non importava quale...Entreranno. Non troveranno una fede da castigare. Si ridurranno a vagabondare per le vie del centro, turisti alla ricerca di quanto avrebbero dovuto fare... Autorizzato finalmente dall'ufficio d'igiene, questo popolo aveva messo fine allo stato d'assedio, con notevole aumento della tassa di soggiorno. Bisognava rifarsi di quel mese a porte chiuse, consacrato all'approntamento delle case private e all'ammodernamento degli alberghi.

Insomma, quello che eravamo abituati a considerare il nostro paesaggio tipico è ormai il paesaggio delle riserve e una scrittura ancorata a quei luoghi rischia di diventare una scrittura protetta. Che dire, del resto, della più selvaggia delle nostre regioni, forse la più caratteristica e caratterizzata dal punto di vista paesaggistico, nonostante le distese di mattoni e cemento rigorosamente non intonacati pregevolmente ripresi nel film Il ladro di bambini? Credo che ci siano più scrittori in un qualsiasi atollo del Pacifico che in tutta la Calabria. I geni nasceranno pure in provincia, ma, evidentemente, lo scrittore maturo è un inurbato. Ciò che è veramente tipico del meridione, sono le scenografie: più che le "ville" (così chiamavano le luminarie al mio paese) le immense sale per gli interminabili pranzi di nozze. O il salotto-rimessa, che Gaetano Cappelli ha descritto mirabilmente in un suo racconto. Questi sono aspetti peculiari del Meridione odierno, insieme all'alluminio anodizzato. Ma lo rappresentano davvero? La coesistenza, ecco, questo sì, potrebbe davvero rendere i nostri luoghi significativi: quest'estate, in una masseria delle murge, a poche decine di chilometri dal Valtur, mi sono ritrovato in pieno nell'età della pietra. Eppure ho l'impressione, dovuta forse al mio scarso interesse, che tutto questo non crei conflitto: le cose si sfiorano, a volte si intrecciano, come fili di diverso colore in una corda, ma tutto scivola non so se nell'indifferenza o nella saggezza. O, forse, indifferenza e saggezza sono la stessa cosa. Condizioni auspicabili, in fondo, ma drammaturgicamente non funzionali. Oppure, forse, stranianti a sufficienza per qualche notevole racconto.

 Ma ammesso che ci siano luoghi realmente peculiari del Meridione, che possano costituire l'ambientazione delle nostre storie, questi luoghi influiscono davvero sui temi, sullo stile, sul punto di vista? Quando Cappelli descrive questa utilitaria fiammante parcheggiata in salotto, lo fa con una scrittura "altra" rispetto a quella di un chioggiotto o di un londinese?

Intervento al convegno Sudcreativo, Napoli, febbraio 2002 (atti raccolti su Libri Nuovi n° 23)


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