Contrabbando

La Oèdipus edizioni ha proposto a venti scrittori, tra i quali Dario Voltolini, Marosia Castaldi, Raffaele Nigro, Giulio Mozzi, Mario Lunetta, Antonella Cilento, di confrontarsi con la moneta che gli italiani "tuttora portano nel cuore". Ne è venuta fuori l'antologia In fin di lira. Questo è il mio racconto.
E' andata, ormai anche le
vecchiette lo dicono.
Euri. Il fatto è che non li pensano. Li dicono ma non li pensano. Nessuno li pensa. Tutti hanno il convertitore. Cerebrale, intendo, quello che ti dà tutto in lire, in soldi veri. Non so come funziona quello degli altri, a me è servita l'esperienza dei film - e dei libri - americani. Avevo imparato piano piano ma già da tempo la conversione era immediata: venti, cento, quattrocentomila dollari? No problem. Non dovevo davvero fare la moltiplicazione: li vedevo, quei soldi, li sentivo. E così mi è bastato capire che un euro vale un dollaro. Lasciateli perdere quei quattro centesimi che ci rompono le palle, virgole, virgolette, pezzetti e pezzettini. Il grosso, ormai, il concetto, lo afferriamo.
Il problema è che io scrivo. E mi ritrovo questi personaggi che devono dire euro. O non lo devono dire. Sembra facile, ma non lo è. A volte i racconti non devono essere troppo definiti, temporalmente. Usare le lire è molto rischioso (curiosamente, invece di spostarsi indietro di un anno il racconto sembra slittare di dieci, vent'anni. C'è un libro, il romanzo di un pubblicitario pentito, con il titolo costituito dal prezzo stesso del libro, nelle varie declinazioni nazionali. Beh, a vederlo lì, col suo titolo in lire, sembra ammuffito, pronto per i remainders). Ma adottare gli euro sa di vestito nuovo, ti impedisce di collocare l'azione in quel tempo un po' indefinito che sarebbe opportuno, magari di qualche anno fa, mica tanto. Nel discorso diretto non ti crei molti problemi, è quando pensano che sorgono i dubbi. Come pensano, in lire o in euro? Vabbé, il monologo interiore lo possiamo evitare, ma i modi di dire? Quattro soldi va sempre bene, ma poche lire? E quando uno è incazzato e deve sparare sputacchiando una cifra iperbolica, che fa, si mette a fare il calcolo in euro?
Nei libri francesi di un certo periodo c'è una notevole insistenza su vecchi e nuovi franchi. Ma le svalutazioni non ti costringono a grandi scelte lessicali. Sempre franchi sono stati, per secoli.
Io, invece, c'ho sto contrabbandiere che deve continuamente esigere cifre, tirare sul prezzo, e mica solo su una sponda: di là greci, serbi, albanesi, che già la lingua è un problema. Vero che le sigarette si trattano in dollari, mi sembra, ma ormai, tra scafi, armi, roba, ci sono transazioni mica da poco. Che gli metto in bocca, a questo? Che poi non ho ancora deciso l'età. E' uno di peso, quindi non dovrebbe essere giovane, ma ormai si affermano anche sbarbatelli, qui. Se non mi decido sugli anni, però, non posso neanche scegliere tra una fedeltà sclerotica alle lirette e un'adesione incondizionata agli euro. Euro? Cazzo, ma se nel gergo non si sono mai usate neanche le lire! Ma che vado cianciando, questi c'hanno già un termine tutto loro, di sicuro.
Verificare, scrittore dei miei stivali. Accertare, controllare, risalire alle fonti. Fonte primaria: tabacchino di piazzetta Costanza d'Aragona. Tabacchino per modo di dire, è rimasto l'appellativo ma le entrate, lì, sono di tutt'altro genere. C'è il lotto, innanzi tutto. C'ha pensato in tempo, Fortunato, alla licenza, e poi non se ne è stato ad aspettare: fa i sistemi, inventa eventi, ha una Smorfia tutta sua. Ogni accadimento nel centro storico ha i suoi numeri, le sue giocate, dalla borseggiatrice da mercatino scoperta e inseguita fino a casa, poi assediata e salvata dai caramba, alla lite per un resto dubbio tra il macellaio di vico Manfredi Svevo e Gino il netturbino. Era in euro, il resto: il macellaio, soccombente al momento della contesa (il cliente sosteneva di aver pagato con banconota da dieci) continuò a tormentare Gino ogni volta che passava davanti alla bottega: mi hai rubato cinque euro. Una di quelle volte il fruttivendolo di fronte gli chiede che storia è. Spiegando la faccenda Gino conclude: ma ora mi ha scocciato, uno di questi giorni glielo mollo uno schiaffone. Il macellaio capta qualcosa (mi hai rubato e mormori pure) e chiede subito dopo al fruttivendolo, che non si sforza di omettere alcunché. Schiaffoni a me? Ah! Il macellaio parte all'inseguimento, raggiunge Gino, gli fa una presa da dietro per il collo e comincia a dargli pugni in testa. E Fortunato, serissimo, fa giocare a tutto il centro storico, oltre al cinque (gli euro del resto) i numeri precisi per macellaio adirato e spazzino arrabbiato. Macellaio adirato e spazzino arrabbiato. Lui non ha la Smorfia, ha il registro delle corporazioni.
Ma non sono solo questi i
proventi di Fortunato: ormai il botteghino è diventato una merceria-profumeria.
Acquistato un locale sul retro e una stanzetta di fianco, ha riempito il
negozio di sfingi e faraoni, canilupo e ultimecene, tutto in chissà quale
materiale tra il ceramico e il plastico. Nel centro storico ci sono i boss - meglio
dire le donne dei boss, loro stanno in galera - e i boss, nonostante i miliardi
- di vecchie lire (perché vecchie, poi? mica ce ne sono di nuove) - il centro
storico non lo abbandoneranno mai. E in queste case, simili esteriormente alle
catapecchie che ospitano decine di albanesi non censiti, sono ammassate tutte
quelle assurde cose vistose che le mamme dei boss hanno sempre desiderato:
passatoie, candelieri dorati - anzi d'oro - divani scolpiti e vellutati, vasi enormi, coloratissimi,
centrotavola e guantiere uno sopra l'altro, padrepio e gnomi, odalische e
vecchi barboni. Di questi soprammobili, quelli non preziosi ovviamente, il
negozio di Fortunato è sempre pieno. E anche di giocattoli e presepi,
all'occasione, che la moglie del Capo li compra per tutti i bambini poveri del
borgo vecchio, italiani o albanesi che siano.