La lotteria della carne

31.12.2021

L'archetto di Didì Dervishi punta dal basso i componenti della piccola orchestra d'archi. Batte il tempo ma rappresenta soprattutto una minaccia, bacchetta di maestra più che da Maestro. Penso al volteggio perfidamente neghittoso del manico di uno scudiscio. E l'intensità del suo sguardo me ne ricorda un altro. Molti anni fa i Magnificent Impacts, tre neri della Base NATO e sei strumentisti locali eseguivano pezzi di Joe Tex, Otis Redding, James Brown. Brani apparentemente elementari. Ma se avevo occasione di assistere alle prove mi tenevo lontano dal leader: ero atterrito dalla tensione del volto, dalla quantità di sudore, dalla repentinità delle contrazioni muscolari nel seguire, nel dare, nell'essere, il ritmo, dalla violenza degli urli gutturali rivolti ai poveri sassofonisti bianchi che non riuscivano ad afferrare il momento di un'entrata, a sentire la variazione di intensità in un impasto.

Solo rhythm and blues. Ma quell'aura di concentrazione dolorosa era la stessa che avvolge le figura ben più elegante di Didì Dervishi. Uguali l'intensità dell'appropriazione e l'insofferenza per le carenze altrui (non per l'imperizia ma per la mancanza di feeling, per una deficienza della passione). Non mi stupisce quindi che il violino di Didì strappi a Vivaldi un trillo struggente, un po' selvaggio, per nulla canonico.

Per indagare il segreto della scuola albanese che inonda il Salento di musicisti capaci, passionali, intransigenti, incontro Mirela Nuhi che inanella dettagli folgoranti con la stessa rapida, inossidabile dolcezza con la quale percorre la tastiera del pianoforte.

Potremmo considerarla una privilegiata: padre medico (che era passato all'ospedale perché facendo l'ispettore sanitario gli toccava denunciare i poveri fabbricanti di quel gelato che si squagliava appena servito e scioglieva anche l'anima di tanti dei poveri bambini che lo mangiavano) madre impiegata al Tribunale, l'unica casa con vasca da bagno di Durazzo (il palazzo l'avevano costruito gli italiani). Ma, come tutti, Mirela si è messa in fila alle due di notte per le sue arance secche secche e il chilo di carne (razione mensile per famiglia) che le toccava al suo turno: pelle, ossa, nervi, ciò che capitava al momento del taglio (e lei si arrabbia, oggi, quando il macellaio le chiede per cosa sono i trecento grammi di carne che va a comprare: cosa interessa a te come devo cucinare la mia carne, tu dammi tre etti di carne che poi so io cosa fare). Mirela non amava la musica, che le hanno imposto a sei anni perché aveva cantato bene in una recita dell'asilo. 

Naturalmente nessun allievo della scuola di musica possedeva lo strumento. Ma è stato un bene: la limitazione ti faceva sfruttare a fondo quelle ore. A casa, invece, sarebbe stato come adesso: là sta il piano, studio dopo. E non studi mai veramente. Ogni genitore doveva costruire allo scolaro una tastiera di cartone per permettergli di esercitare le dita a casa ma questo mi ha aiutato molto perché la maestra ha suggerito a mio padre il trucco di farla più grande così io ho imparato subito ad allargare le dita con scioltezza. Dalle otto alle dodici le elementari; dalle dodici alle tre lo strumento, tutti insieme con la maestra; dalle tre alle sette ognuno chiuso nella sua classe con lo strumento. Mi chiudevano lì. A digiuno, panino delle dieci e mezza a parte. Facevo pipì e mi asciugavo, tutto lì. Sempre lì, solo il piano e una sedia. La finestra, chiusa. Cosa potevo fare? Dovevo studiare. Lei voleva giocare a pallone. E giocava, invece di studiare. Poi sbagliava. E quando sbagliava la maestra faceva partire da lontano un ceffone e lei finiva per terra con tutta la sedia. Spesso una compassionevole allieva delle superiori restava a seguire la lezione, fermandosi dietro di lei per rallentare in qualche modo la caduta. Questo era un castigo blando perché alla sua maestra, che aveva studiato in Cina, il maestro sbatteva il coperchio sulle dita. Lui stava lì con la mano dietro al coperchio e lo chiudeva con forza al primo errore (non al terzo) e per anni e anni la sua maestra aveva portato i segni sulle mani. Ma non si comprometteva la funzionalità della mano? No, una settimana fasciata e poi non sbagliava più. Incredibile. Bellissimo! Ma non c'è bisogno di chiudere il coperchio sulle dita per insegnare il pianoforte. Sì, c'è bisogno. Ma ti fa odiare lo strumento. Dopo lo ami di più. 

Al concorso per accedere al Conservatorio lei suonò benissimo. Il tuo posto è sicuro, le dissero, e poi le chiesero di cantare una canzone popolare. Non mi piace la musica popolare. Come? Anche Beethoven ha ripreso temi popolari. Perché a te non piace? Roba da galera: agitazione, propaganda contro il governo. Non fu denunciata perché il fidanzato aveva regalato al direttore un pesce grande quanto un divano. Fu solo sbattuta fuori. Però il suo caso fece scalpore perché la sua bravura era conosciuta e la canzone popolare fu esclusa dalle prove obbligatorie del concorso, così l'anno dopo lei entrò in Conservatorio senza cantare la canzone popolare (ma da quando sto in Italia mi piace). Solo al Conservatorio cominciò a suonare col cervello, a sentire e godere la musica. Prima, solo dita. Un insegnante di flauto le vendette per cento lire lo spartito della Rapsodia in blue, senza sapere cosa fosse, con metà dei fogli unti perché la moglie ci incartava il panino con l'uovo fritto. Impazzì per quella Rapsodia e una volta fu sorpresa a suonarla. Rischiava la prigione e il trasferimento dei familiari in montagna, al lavoro di miniera. Perché chi l'aveva sorpresa non era un comunista ma una di quelle persone che, necessarietà dell'anima, ti devono far del male. Ma riuscì a trasformarla nella Rapsodia numero due di Listz. Quella di Gershwin non era la sola musica all'indice: niente Béla Bartòk, niente contemporanei e neanche Wagner (non per motivi ideologici, pare, ma, assurdamente, per la condotta di vita). Solo classici, anzi romantici. E di un Mozart, per esempio, non si permettevano alcuni brani solo perché dedicati al monarca. Difficile trovare compositori non perniciosi. E anche se c'erano contemporanei assolvibili, non venivano mai studiati perché di un opera nascosta si possono saccheggiare più facilmente i brani: solo qualche settimana fa Mirela ha scoperto che una toccata lodatissima (e regolarmente pagata dal governo) del Primo Segretario della Lega Artisti era in sostanza la toccata di Khaciaturian. 

Ma non erano solo gli spartiti vietati a mancare: anche della musica ammessa, anzi obbligata, mancavano gli spartiti: la bibliotecaria si era fregato tre quarti della biblioteca, sostenendo che erano gli studenti a non restituire il materiale. Così il brano per il diploma di Conservatorio, la sonata in si minore di Listz (trentacinque minuti, sessanta pagine) ha dovuto copiarla a mano. "Per Elisa", e la "Serenata" di Schubert le ha trascritte ascoltandole in fonoteca (sei cuffie per seicento studenti). Alla perfezione: le ho confrontate con gli spartiti italiani. Si era allenata alle superiori, dove la radio del collegio veniva accesa a ore determinate dall'istitutrice. I pianoforti erano quattordici e per suonarli si attendevano anche le due di notte, dato che nello stesso edificio si tenevano fino alle sette le lezioni degli studenti di altre discipline. Però poi ci accompagnavano a casa con la scorta. 

Anche in quel che non ti piace c'è sempre qualcosa di bello. C'è. Prova a trovarla. La coda? mi piaceva alzarmi alle due perché pensavo: potrei vedere qualche bel ragazzo. Potevo ascoltare i pettegolezzi delle altre. Io non ne facevo ma mi divertiva ascoltarli. Odiavo stare a casa. Poi, quello che c'era, c'era. In Albania diciamo: non abbiamo mai soldi e non ci finiscono mai. Finito il Conservatorio, le è stato negato l'insegnamento perché il funzionario comunale che si occupava degli incarichi, suo ex cognato, la odiava. Ha trovato da suonare in albergo. Mille lire al mese, che spendeva in caffè. Ma suonava e incontrava gente. Incontrare non è forse il termine appropriato: c'era una spia ogni mezzo metro e il corridoio del piano di sopra era tutto in vetro così il direttore controllava continuamente: se qualche forestiero si avvicinava più del dovuto le faceva segno e lei doveva chiudere il piano e alzarsi, evitando di chiedere scusa in lingua straniera, finché quello non tornava a posto. 

Ad Alfredo, un pioniere del turismo in Albania, era vietato di parlare con gli albanesi. Ma lui, da leccese, girò la sua poltrona e disse a Mirela "Buonasera". Lei suonava i Beatles, scoperti alla vecchia radio del padre, tanto quelli non li conoscevano e le bastava impostare gli accordi come se suonasse un classico. Alfredo chiamò il cameriere e cominciò a offrirle da bere (tutto restava sul pianoforte perché lei non poteva toccare niente) poi a chiedere "suona questo, suona quello" attraverso una guida. Alla fine scrisse su un foglio di carta il suo telefono e mentre gli occhi uscivano fuori dalle orbite a tutte le spie, lo mise dentro uno spartito facendole chiedere dalla guida di scrivere il suo. Lei scrisse anche i nomi di quattro spartiti e si lasciò sfuggire che le sarebbe piaciuto lavorare in Italia per guadagnare di più. La frase venne captata da un microfono nascosto, il foglietto fu sequestrato e lei cacciata dall'albergo. Il mese dopo riuscì a raccogliere i soldi per pagare il direttore e fu riammessa. 

Alfredo cominciò a telefonare dall'Italia ma Mirela non gli veniva mai passata. Una volta prese lei la telefonata e gli fece spiegare da un collega che doveva telefonare all'ora del telegiornale (dalle otto alle otto e mezza non si suonava, non si faceva niente: bisognava salire a vedere il telegiornale). Dopo molti monologhi telefonici d'Alfredo (lei non conosceva l'italiano) alle undici e venti del diciannove gennaio del novantuno Mirela si ritrovò sul traghetto per l'Italia. Venuta per insegnare, si è anche sposata. Ma non ha mai abbandonato il suo mondo. Se non è tornata indietro con la sua valigetta mai disfatta, una gonna, una maglietta, dieci paia di mutandine, una canottiera, l'impermeabile e un paio di scarpe, è solo perché ora anche lì c'è di tutto. Come in Italia: non c'è più gusto. 

La vita dovrebbe essere una lotteria della carne: un brandello a caso, risicato, che occorre ingegnarsi a rendere succulento. Quello che riuscivano ad ottenere lì era molto più prezioso. Aveva imparato a fumare perché era proibito: una la settimana. Era molto buona e non mi faceva male. Qui ogni giorno un pacchetto. Anche il piccolo spartito che riusciva ad ottenere era prezioso. Adesso Alfredo le compra decine di spartiti. Lei li mette sul piano e basta. Qui, nello strano paese dove ti obbligano a scegliere tra fesa e controfiletto, ha potuto ascoltare tutto il Gershwin che ha voluto, e anche Debussy. Ma non può suonarlo: 

Non riesco a leggere certi compositori, non ho abituato l'occhio a leggere la musica moderna. E non voglio impararlo ascoltando, copiandolo: devo dargli la mia spiegazione. E non so niente di lui, neanche della sua vita, del carattere che aveva la donna per la quale ha composto un determinato pezzo. Bisogna cominciare dai primi pezzi e seguire tutto il percorso. Per suonare come lui ha scritto mi ci vorranno cinque o sei anni. 

Ma, Mirela, qui la gente non si pone tanti problemi. Qui chiunque se la cava con uno strumento pensa di poter suonare qualsiasi cosa: un'occhiata e via. Magari passa a fare il direttore d'orchestra. Ci si butta, ci si arrangia. 

Perché sono stati educati male. Persino di Mozart io posso suonare solo alcune cose: siccome le dita camminavano veloci, mi hanno fatto passare direttamente da Haydn a Beethoven. E anche se suono bene Beethoven, che è quasi sempre più difficile di Mozart, mi è difficile entrare in Mozart. Ha problemi con gli allievi, naturalmente. E' costretta a rifiutare i figli delle mamme che gli dicono: "non c'è bisogno di tante complicazioni, basta che sappiano strimpellare" e anche le mamme con intenzioni serie si lasciano condizionare da ogni capriccio dei pargoli. Ma quando i miei allievi andranno al Conservatorio, si creerà un alta opinione del mio insegnamento e avrò molti allievi. 

Torna con grandissimo piacere in Albania, non per quello che fa lì ma per quello che non fa (o che non dovrebbe fare). Ma non è tutto permesso, ormai? C'è un surrogato: la madre le impedisce di stare in discoteca fino alle tre di notte. Perciò lo devo fare. Qui, manco a dirlo, non ci va mai. E poi mi manca l'amicizia, quella che si costruisce da piccoli. E' come costruire un monumento pezzo a pezzo e poi andar via è abbandonarlo. Si divertivano con niente: la notte di Capodanno buttavano pomodori sui marciapiedi dove erano incastrate le lastre "Vietato sputare" e correvano a nascondersi dalla polizia. Eravamo pochi, ci conoscevamo tutti, ognuno voleva essere il primo in ciò che faceva. E poteva sentirsi il primo. Io ero interessante nella conversazione, brillante nelle battute, e mi sentivo prima nella comitiva; mio padre era l'unico tossicologo di Durazzo; un amico era marinaio e quando nessuno era uscito dall'Albania si sentiva unico. Qui non c'è sacrificio per arrivare. La gente vuol solo stare bene a casa propria. Noi volevamo essere notati, perché la reputazione era la cosa più importante. 

Ma il controllo dell'opinione pubblica ti limita, ti soffoca. 

Questo è il bello. Devi stare attento anche a come cammini. Così tieni te stesso sotto controllo. Ho passato la vita in mezzo alle spie, alla paura, sempre. Ma potevi controllare. Avevi te stessa sotto controllo, sempre. Qui sei così rilassata... 

Sei libera. 

Libera? I cani sono liberi. 

La politica non c'entra, lei non se ne è mai occupata. Il regime che Mirela rimpiange non ha colore, prescinde totalmente dalla proprietà dei mezzi di produzione. Lei non rimpiange la sicurezza, quella predestinazione del proprio stato, quella certezza del proprio futuro, che tanti rimpiangono del mondo comunista. Né la atterrisce la competitività, tutt'altro. Non ha bisogno di certezze quanto di proibizioni da infrangere. Di società alle quali ribellarsi individualmente e in segreto. Da noi tutte le cose proibite sono belle. Se sono belle bisogna provarle. Tutte. Avrebbe vissuto altrettanto bene sotto Franco, nella Roma papalina o nella Teheran degli ayatollah. 

Per liquidare il caso Mirela, un'aberrazione anche tra i suoi connazionali, sono già pronte le categorie: se non bastasse l'inevitabile condizione di rimpianto per gli anni dell'infanzia e della giovinezza, con la supina perpetuazione di prassi educative superate e stolide, si potrebbe far riferimento all'efficacia dei condizionamenti totalitari e alla vertigine della possibilità - dell'eccesso - di scelta, diagnosticando, a coronamento, una personalità sadomasochista. Ma mi rifiuto di archiviare: di fronte non c'è un asceta, un carattere debole, una vittima inconsapevole, una donna spenta. Mirela è fiera, intelligente, spiritosa, a volte caustica; si direbbe allegra, se gli occhi non denunciassero troppo spesso tristezza e smarrimento. E' sensibile, dolce e aperta. Si è costretti a chiedersi, se nell'educazione musicale - e nell'educazione tout court - la costrizione non sia necessaria. Se non sia sciocco far "scegliere" a un bambino di sei anni lo strumento che suonerà nella splendida maturità. Se serva sforzarsi di rendergli piacevole un attività che non può in ogni caso apprezzare realmente. E si rischia di confondersi col lagnoso e ipocrita coro pauperista chiedendosi cosa, dittatura esclusa, possa riportarci alla passione? A restituire importanza a ogni oggetto, a ogni rapporto e, soprattutto, all'applicazione? 

Non è necessaria la violenza, mi rammenta un'allieva di Mirela che solo l'età adulta mette al riparo da sevizie, per far nascere un Bruno Canino. Ma cosa preferire, un Mennea del pianoforte o un'intera scuola di velocisti?

Via Po (inserto Conquiste del Lavoro) 17 maggio 2003, con altro titolo  


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