Duel

Se ne venne rapido e assorto, come se entrasse in una stazione. Cappotto serio, di cammello. M'individuò subito e si avvicinò come se cercasse proprio me, sicuro di trovarmi: - Una partita?
- E con chi?
- In due.
Da solo me la cavo ma mi stanca passare continuamente da una manopola all'altra. Al bar, di solito, si aspetta tranquillamente che arrivino gli altri per costituire due coppie: dopo la sosta al banco ci si arriva quasi naturalmente al biliardino. Questo qui entrava a passo di carica e mi sfidava. Quasi mi dispiaceva batterlo. Perché, naturalmente, lo avrei battuto: c'eravamo incontrati un paio di volte e in porta, nel mio ruolo, mi ero beffato del suo gioco geometrico, senza finte o tagli lenti, scarso pure di strisciate maligne. Cosa credeva di fare, adesso? La montatura quadra non bastava per indurirgli le guanciotte.
Mugugnai un assenso e ci piazzammo. Tirai a me e premetti il manico della seconda stecca per raddrizzarla e controllai l'escursione del portiere, eccessiva, dal lato del manico, per deformazione della molla.
L'uscita delle palle era dalla sua parte, giocò veloce la prima e segnò di rimbalzo. Mi appostai in difesa, teso ma senza mostrarlo: non gli avrei dato la soddisfazione di vedermi saltellare affannosamente da una stecca all'altra; lo avrei snervato opponendo il mio piazzamento roccioso alla sua foga. Ma la sapiente lentezza che ostentavo m'impedì di svellere dalla buca, con strappo scomposto ma salvifico del portiere, la palla velenosa finita a vorticare sulla mia linea di porta dopo stizzosi batti e ribatti dei suoi avanti.
Nessun'imprecazione, neppure lo scherzoso rammarico di un eeh: la mia destra avanzava con calma verso la manopola della stecca d'attacco, che mi limitavo a opporre inerte ai tentativi di lancio dei suoi terzini, senza sussultare nel contropiede, neppure il più elastico (intestardendosi nel rilancio avrebbe finito per offrirmi una palla morta da spingere controtempo, sfottente, in buca). Raramente la sinistra abbandonava il portiere per la stecca centrale, e mai per sostenere un forcing della destra. Per dialogarci, tutt'al più, in tentativi di passaggi all'indietro: non ne avevo padronanza ma avrebbero addormentato il gioco e spento la sua foga ritmata.
Non impedirono, invece, una sua intercettazione di rapina che mi costò il terzo gol.
A ogni schiocco di palla in buca mi guardava da sopra gli occhiali, come a sottolineare i punti di una dimostrazione.
Riuscii, senza scompormi, a rendere più incisiva l'azione colpendo le impugnature a mano aperta in rapida successione, a caccia della palla da beccare al volo, d'istinto, tonfi incalzanti e tintinnio residuo. Segnai due volte; non volli però, a quinta palla giocata, appellarmi al diritto di cambio campo per annullare il vantaggio della battuta, della quale approfittava con calcolo sfacciato (io non tenevo a vincere, come dimostrava ogni movenza degli arti, non bastasse la maschera annoiata: ero lì per passare il mio tempo, e non c'eravamo misurati abbastanza volte perché la partita acquistasse il valore di una sfida significativa).
La sesta palla s'infilò nella mia buca. Il rotolio cavernoso delle discese risuonava forte nella minuscola saletta vuota.
Era un sorriso quello, o la contrazione dello sforzo sulla boccuccia all'insù?
Sul cinque a due per lui dovevo imporre un break con la scusa dell'olio (ci sputavano sopra, alle stecche, ma dopo un po' era peggio). Insistetti, invece, fino al suo ormai chiamato sesto punto.
Beh, adesso facciamo sul serio!
- Un'altra? - lanciai.
- No, basta - guardandomi negli occhi invece di prendere neghittosamente le distanze, e ancora non capivo se era sorriso o determinazione.
Se n'andò senza guardarsi intorno, bilanciando il passo veloce con un dondolio di testa e spalle perché le mani erano infilate a metà nelle tasche del cappotto, stanche d'unto.