Poema nero assolatano

Il titolo respinge, fa pensare a una raccolta di versi di Romano Battaglia. Invece no, in Un refolo di vento di Salvatore Stefanoni (Besa 2003) nessun estenuato afflato lirico: il vento, qui, è funzionale. Era ora che ci si soffermasse su quello che davvero influisce su vita e indole degli "assolatani" (così si definiscono gli abitanti del paese che fa da fondale all'azione): più che la manganellata del solleone, da noi a dominare è il vento, quello che cava buchi dalla pietra leccese, il gruviera nel quale gioca a rimpiattarsi il romanzo. Il refolo, poi, va riferito a quel venticello in cui consisterebbe la calunnia, e la calunnia è qui l'arma letale che dovrebbe far deflagrare il paese senza bisogno di tanto piombo: basta insinuare, annunciare, lasciare che si sparga per fiere e mercati una voce (o tante voci, quante sono le cimici impiantate nel paese). Ma chi di refolo ferisce di refolo può perire: il Grande Fratello è a sua volta sotto osservazione.
Il vento si alza subito, giocando con i vestiti di quattro loschi individui come fossero gli spolverini degli uomini di Cheyenne in C'era una volta il West. In effetti i quattro protagonisti piombano in paese con l'incedere dei killer della stazione in quel western. I silenzi, gli sguardi, l'impiegato terrorizzato. Perfino, nell'ufficio del sindaco, il fotogramma macro delle zampe di una mosca sul tavolo (e non mancherà, come in altri film di Leone, il locandiere servile). Anche la collocazione temporale potrebbe essere la stessa: bisogna arrivare a pag. 39 per trovare il primo indizio (una bici Graziella) che ci permette di datare l'epoca del racconto. A quel punto le quattro sagome hanno perso l'imponenza offerta dal grandangolo iniziale: incominciano a rivelarsi sciancati e mingherlini e impotenti. Il loro eloquio, invece, specie quello di Iambetta, il vero cervello, ha abbandonato la brevità epigrammatica dell'incontro col sindaco per dilatarsi, contorcersi, impreziosirsi. Questi killer discettano come bizantini, sputano articolate sentenze sulla vita e sulla morte, e quando si dotano di strumenti moderni li nominano come se li osservassero dalla notte dei tempi, "teleschermi anodizzati e lucenti come storte e alambicchi d'un mago". Ricorrono in continuazione metafore teatrali, si insiste su arredi barocchi che ricordano il trovarobato di Carmelo Bene: specchi, candele, tendaggi, fiori. A un certo punto Iambetta, il regista della macchinazione, arringa i suoi dall'alto di uno sgabello da bar: E' un ingranaggio perfetto, capite?, il teatro. Non uccidetemi con la fretta la recita.
E' come se parlasse dell'andamento del libro, continuamente rallentato, volutamente involuto. La caccia alla vittima designata, il sognatore, il letterato, il giornalista che parla troppo, è sempre rinviata. L'eliminazione - voluta da un misterioso Senatore - dev'essere esemplare, deve cadere dal cielo e coinvolgere l'intero paese: una punizione che non si è mai vista, un precedente terribile, un fiore all'occhiello per il burattinaio. Un regista s'attacca ai dettagli e molti ne ho dovuti studiare perché il paese si muova a passo di danza e a passo di danza si sveni e ne muoia. Preparando la giostra terminale, Iambetta indaga il mistero femminile, di volta in volta - o contemporaneamente - infoiato, incantato, smarrito, sadico. Inscena complicati rituali di corteggiamento e confessioni sacrileghe, anche gli stupri più brutali trovano location paniche, mitologiche. A teatro, a parte la trama quasi sempre vecchiotta, è il resto che conta. E' vero, la trama non conta: questo non è un thriller e nemmeno un vero noir. E' un poema, un oggetto a cui ritornare. La narrazione è cadenzata dai fermo fotogramma: gesti, posture, specie di donna, isolati da una particolare lama di luce, incastonati in definizioni preziose ma sempre taglienti.
Stefanoni, che è giornalista, ha scritto un romanzo che è quanto di più lontano dallo stile giornalistico di tendenza. Per certi indugi, e l'impasto linguistico, ricorda a volte D'Arrigo ma la sua scrittura è molto più contratta, scandita con più secchezza, alla ricerca di una storia perfetta, condita di fiele e convulsiva come una calda sborrata, gli stessi requisiti del resoconto che il burattinaio pretende da ognuno dei suoi scagnozzi. Nessuna finezza linguistica gli è estranea, produce immagini in sequenza, padroneggia il ritmo come nessuno sembra più intenzionato a fare: si può leggere il libro con la bacchetta di faggio in mano, a scandire le battute. La lingua è sontuosa, picchiettata di termini arcaici mai inutilmente esibiti, di inserti dialettali non destinati a far colore. La durezza sboccata di alcuni lemmi non abbassa il tono generale, alto: lo scopo è quello di rendere mitica la vicenda, di intrecciarla alla lunghissima storia sempre uguale dei paesi assolati, in particolare a quella di un antico signorotto del luogo e della sua bella, Donna Luisita, nel cui palazzo si insediano i nostri eroi. Va detto che se questa magnifica lingua riesce a rendere memorabili le epifanie femminili, dal più struggente dei ricordi al più sozzo degli apprezzamenti, risulta faticosa e implausibile quando deve render conto dei rozzi accordi dei sicari. Così come affatica l'entrata in scena della vittima indicata, che esce dal dormiveglia dopo un'incubazione di otto pagine di sogni. Se sono rivelatori? E che ne so: i sogni raccontati, nella vita e nella narrativa, mi fanno addormentare.